Nel mondo delle criptovalute, l’innovazione non si ferma mai. Con la proliferazione di blockchain il panorama si è però evoluto in un ecosistema sempre più frammentato.
Ogni rete ha i suoi punti di forza, i propri asset nativi, la propria community, ma questa diversità comporta anche un problema strutturale: l’incompatibilità tra le blockchain.
A oggi, la maggior parte delle blockchain non può comunicare direttamente con le altre. È come avere tante autostrade parallele, ma nessuno svincolo per cambiare direzione.
È qui che entra in gioco l’interoperabilità, uno dei temi più cruciali dell’intero settore.
I bridge e le transazioni cross-chain sono le tecnologie che permettono a queste reti di parlarsi, scambiarsi valore e condividere informazioni.
In questo articolo esploreremo come funzionano i bridge, i vari modelli di interoperabilità, i casi d’uso reali e le sfide aperte, con l’obiettivo di capire non solo come si costruisce un mondo multichain, ma perché è ormai inevitabile.
Punti Chiave:
Le transazioni cross-chain sono operazioni che permettono di trasferire asset o dati tra blockchain diverse per superare la loro naturale incompatibilità.
Lo strumento che consente di farlo sono i bridge, protocolli che abilitano comunicazione e interoperabilità diretta tra reti separate.
Potenziano DeFi, NFT e Gaming, garantendo portabilità e liquidità, e consentendo di muoversi tra chain per ottimizzare costi, rendimenti e velocità.

Introduzione:
Oggi il mondo delle criptovalute è multichain: esistono centinaia di blockchain attive e decine di migliaia di criptovalute in circolazione. Ciascuna rete opera con le proprie regole, token nativi e comunità, spesso in isolamento rispetto alle altre.
Questa frammentazione implica che asset e dati rimangano intrappolati nei confini di ogni singola blockchain, limitandone l’utilità e l’adozione complessiva.
Per fare un’analogia, l’ecosistema blockchain attuale somiglia a un arcipelago di “isole digitali” – o a nazioni con economie e sistemi separati – in cui manca un sistema di trasporto e comunicazione efficiente tra un’isola e l’altra.
L’interoperabilità tra blockchain nasce proprio per colmare queste distanze. Significa permettere a reti diverse di comunicare, scambiare valore e condividere informazioni in modo fluido e sicuro.
Se realizzata correttamente, l’interoperabilità può unire le isole dell’arcipelago crypto in un continente connesso, ampliando i casi d’uso e migliorando l’esperienza utente.
Ad esempio, consentirebbe di utilizzare Bitcoin sulla rete Ethereum senza doverlo vendere, oppure di far innescare a uno smart contract su una chain azioni su un’altra.
In definitiva, rompere le barriere tra blockchain può portare a un ecosistema più unito, liquido e innovativo, facilitando anche l’adozione da parte del grande pubblico, oggi frenata dalla necessità di gestire più wallet, token e piattaforme separate.
Negli ultimi anni sono emerse varie soluzioni per l’interoperabilità. In particolare si è assistito a un’esplosione di blockchain bridge – letteralmente “ponti” – progettati per collegare reti diverse e permettere trasferimenti di asset tra di esse.
In parallelo, concetti come cross-chain e multichain sono diventati centrali: tecnologie che puntano rispettivamente a connettere blockchain isolate e a sviluppare applicazioni distribuite su più blockchain contemporaneamente.

Il Problema della Frammentazione:Prima di addentrarci nei dettagli tecnici, vale la pena comprendere a fondo perché l’interoperabilità è considerata così fondamentale.
Abbiamo accennato alla frammentazione. Con centinaia di blockchain scollegate, l’ecosistema crypto soffre di alcuni limiti strutturali evidenti:
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Liquidità ed efficienza limitate: le risorse (token, liquidità) sono distribuite su molte chain diverse e non possono muoversi liberamente. Ciò frammenta la liquidità dei mercati e rende meno efficienti applicazioni come gli exchange decentralizzati, che su ogni chain hanno accesso solo ai token nativi di quella rete. Senza interoperabilità, un token su una blockchain non può essere utilizzato direttamente su un’altra, riducendo le possibilità di investimento e utilizzo incrociato delle risorse.
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Condivisione di dati e funzionalità: ogni blockchain ha il proprio stato e insieme di smart contract. Immaginiamo due applicazioni, una su Ethereum e una su Solana, che potrebbero trarre vantaggio dal condividere dati (per esempio attestati di identità, record di supply chain, ecc.). Senza un canale di comunicazione, questi dati rimangono confinati e non riutilizzabili altrove. L’interoperabilità permette invece di condividere informazioni verificate tra reti diverse, aprendo la porta ad applicazioni composte cross-chain (es. un contratto che su Chain A attiva un’azione su Chain B) e a scenari come l’interazione tra blockchain pubbliche e reti private aziendali.
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Esperienza utente complessa: per l’utente comune, dover gestire più blockchain significa dover possedere wallet differenti, acquisire token diversi per pagare le fee di ciascuna rete e comprendere le particolarità di ognuna. Questo è un forte ostacolo all’adozione di massa. Idealmente, l’utente dovrebbe poter interagire con applicazioni decentralizzate senza preoccuparsi su quale chain risiedono, proprio come oggi usiamo servizi internet senza conoscere i dettagli dell’infrastruttura di rete sottostante. L’interoperabilità mira a nascondere la complessità multi-chain dietro applicazioni user-friendly, facendo in modo che le blockchain lavorino insieme in background.
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Scalabilità modulare: un ulteriore aspetto è che diverse blockchain possono specializzarsi (una più veloce ma meno decentralizzata, un’altra più sicura ma lenta). Se queste potessero interagire, si potrebbe suddividere il carico di lavoro: ad esempio eseguire calcoli complessi su una chain performante e finalizzare i risultati su una chain più sicura. In questo senso l’interoperabilità può alleviare i limiti di scalabilità delle singole reti, distribuendo le transazioni su più piattaforme e riducendo la congestione. Già oggi vediamo architetture multi-layer (Ethereum L1 con reti Layer 2 collegate) che sono una forma di interoperabilità verticale.
In sintesi, la mancanza di interoperabilità rende l’ecosistema cripto simile a tanti “giardini recintati”. Realizzarla significa invece costruire l’Internet delle blockchain, un ambiente dove valore e informazioni fluiscono liberamente con standard comuni, un po’ come internet ha unificato reti computer separate.
Non sorprende quindi che l’interoperabilità sia ritenuta un fattore chiave per sbloccare il pieno potenziale della tecnologia blockchain, spingendo l’innovazione e la massa critica di utenti necessari a far maturare il settore.

Cosa Sono e Come Funzionano i Bridge:Un bridge blockchain è un sistema – costituito tipicamente da smart contract e da alcuni nodi di rete specializzati – che trasferisce informazioni o risorse da una blockchain ad un’altra.
Il termine “informazioni” qui è ampio: può trattarsi di criptovalute/token, di dati sullo stato (es. una prova crittografica che certifica che su Chain A è avvenuto un certo evento) o persino di intere istruzioni da eseguire (cross-chain smart contracts).
Vediamo un esempio concreto per capire il principio di base: supponiamo che Alice possieda 1 Bitcoin sulla blockchain Bitcoin, ma voglia usare questo valore nella DeFi su Ethereum (magari per fornire liquidità a un DEX su Ethereum).
Bitcoin e Ethereum sono reti diverse, incompatibili. Non posso mandare Bitcoin a un indirizzo Ethereum. Un bridge risolve il problema nel seguente modo:
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Lock sulla chain d’origine: Alice invia il suo 1 BTC a un indirizzo controllato dal bridge sulla blockchain Bitcoin. Questo deposito è l’evento di partenza. Il bridge “osserva” la blockchain Bitcoin in attesa di tale transazione di deposito. Il BTC di Alice rimane bloccato sulla chain di origine (Bitcoin) – ad esempio congelato in uno smart contract o in un wallet multi-firma del bridge – e funge da collaterale.
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Verifica e trasmissione: I nodi del bridge (chiamati spesso osservatori, relayer o validatori a seconda dell’architettura) rilevano il deposito di Alice sulla blockchain di partenza. Una volta raggiunta la conferma necessaria (diverse conferme su Bitcoin per sicurezza), questi nodi preparano un messaggio contenente la prova crittografica dell’avvenuto deposito. Questo messaggio viene trasmesso alla blockchain di destinazione (Ethereum). A seconda del protocollo, la trasmissione può avvenire attraverso un singolo relayer o richiedere che più nodi raggiungano un consenso sull’evento prima di inoltrarlo.
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Mint sulla chain di destinazione: ricevuta la prova valida che 1 BTC è stato depositato sul bridge, sulla blockchain Ethereum uno smart contract del bridge conia un nuovo token rappresentativo – spesso chiamato wrapped token – ad esempio 1 WBTC (Wrapped Bitcoin). Questo WBTC è un token ERC-20 su Ethereum che ha valore ancorato a 1 BTC. Di fatto, il BTC originale di Alice rimane custodito “in garanzia” dal bridge su Bitcoin, mentre Alice ottiene un equivalente tokenizzato su Ethereum che può ora utilizzare liberamente nelle applicazioni DeFi di Ethereum. È importante notare che non c’è trasferimento fisico del BTC tra blockchain: tecnicamente si tratta di un lock su una chain e un mint su un’altra.
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Riscatto (burn & release): se Alice in futuro volesse riportare il suo Bitcoin sulla chain originaria, potrà effettuare il processo inverso. Restituirà (burn) il suo WBTC sulla blockchain Ethereum allo smart contract del bridge, il quale provvederà a bruciare quel token. A questo punto i nodi del bridge sbloccheranno il BTC originale depositato su Bitcoin e lo restituiranno all’indirizzo Bitcoin di Alice. In questo modo il circolo si chiude: il wrapped token su Ethereum è stato distrutto e l’asset originario è tornato alla sua blockchain nativa.
Questo meccanismo di base viene spesso chiamato “lock-mint-burn-release”. La maggior parte dei bridge oggi in uso lo implementa in varie forme. I token “wrappati” creati su blockchain alternative agiscono come segnaposto che rappresentano asset originariamente altrove, permettendo di usarli in ambienti altrimenti incompatibili. Ad esempio, Wrapped Bitcoin (WBTC) su Ethereum è uno dei casi più noti, che consente ai possessori di BTC di accedere al mondo DeFi di Ethereum senza vendere i propri bitcoin. Analogamente esistono versioni wrappate di Ether su reti come Solana, e così via.
Va notato che il bridge può trasferire non solo token ma anche informazioni arbitrarie tra chain.
Tuttavia, il trasferimento di asset è il caso d’uso prevalente e più immediato. Per realizzarlo correttamente, un bridge di norma include alcune componenti chiave:
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Monitoraggio degli eventi: uno o più attori (server off-chain, oracoli, validatori) osservano costantemente la blockchain di origine in cerca di eventi rilevanti (ad esempio deposito di fondi in un indirizzo specifico).
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Comunicazione cross-chain (relay): quando si verifica l’evento, deve essere inviato un messaggio alla blockchain di destinazione per notificare cosa è accaduto sulla prima chain. Questo avviene tramite transazioni che portano con sé i dati dell’evento (ad esempio l’ID della transazione di deposito, la quantità, l’indirizzo del destinatario) sulla seconda chain.
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Validazione/consenso: per evitare falsi messaggi o manomissioni, spesso è richiesto che più nodi indipendenti confermino l’evento. Ad esempio, in alcuni bridge decentralizzati è necessario il consenso di una maggioranza (o l’unanimità) dei validatori off-chain prima di accettare la transazione cross-chain. Questo aggiunge sicurezza: un singolo nodo malevolo non può agire da solo.
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Firma/verifica crittografica: i nodi del bridge appongono le loro firme digitali sul messaggio, attestando la validità dell’evento rilevato. Sulla chain di destinazione, gli smart contract del bridge verificano queste firme prima di eseguire l’azione come il mint o lo sblocco dei fondi.
Dal punto di vista dell’utente finale, usare un bridge significa generalmente scambiare un asset nativo con uno equivalente su un’altra chain.
Questo processo può essere un po’ più macchinoso rispetto a una semplice transazione su un exchange centralizzato: spesso coinvolge più passaggi e un costo doppio (fee sulla chain di partenza e su quella di arrivo per le transazioni).
Bridge Custodial vs Trustless
Un’importante distinzione nei bridge è tra quelli centralizzati (custodial) e quelli decentralizzati (trustless):
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Bridge centralizzati/custodial: l’utente si affida a un’entità terza che gestisce il bridge e custodisce gli asset. Spesso questa entità è una società o un gruppo ristretto di operatori. Un esempio lampante è il bridge offerto da un exchange centralizzato: depositi le coin su una blockchain nell’account dell’exchange e ritiri su un’altra blockchain, fidandoti che l’exchange abbia davvero riserve e che non perda i fondi. Allo stesso modo, WBTC su Ethereum è un asset cross-chain custodial: per “mintare” WBTC degli enti specializzati (i custodian) prendono in deposito BTC reali e rilasciano WBTC in cambio. Gli utenti confidano che tali custodi (ad esempio BitGo per WBTC) detengano 1 BTC per ogni WBTC emesso. I bridge custodial possono essere semplici e performanti, ma richiedono fiducia: l’utente deve fidarsi della solvibilità e buona condotta del gestore. C’è inoltre un rischio di censura o sequestro: essendoci un’azienda di mezzo, autorità o aggressori potrebbero costringerla a bloccare fondi o potrebbero violarne la sicurezza.
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Bridge decentralizzati/non-custodial: in questo caso non c’è un singolo custode, ma il processo è governato da smart contract e/o da una rete distribuita di validatori. Il locking e minting viene gestito da contratti su entrambe le chain, e la sicurezza dipende dalla robustezza del codice e dal meccanismo di consenso tra i nodi del bridge. L’obiettivo è eliminare la necessità di fidarsi di una singola entità. Se tutto è on-chain e aperto, in teoria chiunque può verificare le riserve e le procedure. Tuttavia, la sicurezza di un bridge trustless è tanto forte quanto lo sono i suoi smart contract (che se difettosi possono essere attaccati da hacker) e la decentralizzazione effettiva dei suoi validatori (se ce ne sono pochi e controllati, di fatto si introduce un punto di fallimento). Approfondiremo più avanti le implicazioni di sicurezza, dato che i bridge trustless hanno subito diversi attacchi importanti negli ultimi anni.
In sintesi, i bridge puntano a risolvere il trasporto di asset tra mondi blockchain differenti. Sono diventati un’infrastruttura cruciale per un ecosistema che vuole essere sempre più connesso. Ma implementarli senza introdurre nuovi rischi non è banale.
Nel frattempo, insieme ai bridge sono nati anche altri concetti di transazioni cross-chain e differenti approcci all’interoperabilità, che analizzeremo nelle prossime sezioni.

Transazioni Cross-Chain:Oltre ai classici bridge con lock/mint, esistono altri modi per realizzare transazioni cross-chain, ciascuno con pro e contro.
È utile conoscerli per capire il panorama completo dell’interoperabilità.
Atomic Swap: Scambi Atomici tra Blockchain
Prima ancora che i bridge diventassero popolari, si parlava di atomic swap (scambi atomici). Un atomic swap è essenzialmente uno scambio diretto peer-to-peer di asset tra due blockchain diverse, senza intermediari fiduciari.
Ad esempio: Alice invia 1 BTC a Bob sulla blockchain Bitcoin, mentre Bob contemporaneamente invia 15 ETH ad Alice sulla blockchain Ethereum, il tutto in un’unica “operazione atomica” dove o entrambi gli scambi avvengono oppure nessuno avviene.
Come è possibile coordinare uno scambio su due chain differenti in modo atomico? La soluzione è usare smart contract con HTLC (Hashed Timelock Contracts) su entrambe le chain.
In pratica, Alice e Bob concordano un segreto crittografico condiviso (un hash) e ciascuno impegna i propri fondi in un contratto che li rilascerà all’altro solo se il segreto viene rivelato entro un certo tempo limite.
Senza entrare nei dettagli matematici, questo schema assicura che se Alice rispetta i termini e Bob pure, lo swap si completa, mentre se uno dei due non mantiene l’impegno, i fondi ritornano ai legittimi proprietari dopo la scadenza.
Non serve fiducia reciproca: la crittografia garantisce che nessuno possa imbrogliare. In altre parole, gli atomic swap utilizzano prove crittografiche per verificare transazioni cross-chain e assicurare che entrambe le parti completino la propria parte dello scambio, eliminando la possibilità di barare.
Gli atomic swap sono eleganti sul piano teorico e totalmente trustless (nessun custode, solo smart contract). Tuttavia, nella pratica non hanno preso piede su larga scala per diversi motivi:
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Complessità e supporto: richiedono che entrambe le blockchain supportino smart contract o funzioni di hash timelock compatibili. Inoltre orchestrare manualmente un atomic swap non è alla portata dell’utente medio. Servono interfacce e protocolli standard che non si sono affermati a sufficienza.
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Assenza di asset “clonati”: a differenza di un bridge, l’atomic swap non trasferisce un asset su un’altra chain, ma lo scambia con un altro asset. Ciò significa che se Alice vuole usare BTC su Ethereum via atomic swap, in realtà finirà per scambiare BTC con ETH o con un token ERC-20 equivalente, cambiando la composizione del suo portafoglio. Non c’è modo di mantenere “lo stesso” asset: è un trade, non un trasferimento. Per molti casi d’uso, come ad esempio voler usare proprio il proprio BTC come collaterale, questo non è ideale.
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Necessità di controparti e liquidità: per effettuare uno swap incrociato serve trovare qualcuno che voglia scambiare esattamente l’asset opposto (tipo BTC contro ETH) nella quantità desiderata. Non c’è una “liquidità globale” facile come con un bridge, dove si interagisce con un contratto automaticamente. Esistono DEX cross-chain basati su swap (come THORChain) che provano a risolvere questo offrendo pool di liquidità multi-chain, ma siamo già in un territorio simile ai bridge (infatti THORChain di fatto è un network che fa da intermediario decentralizzato per swap tra chain).
In sintesi, gli atomic swap sono importanti concettualmente e garantiscono elevata sicurezza ma risultano poco user-friendly e non risolvono il problema di portare un asset su un’altra chain intatto, dato che operano come scambio.

Bridge con Pool di Liquidità e Trasferimenti “senza mint”
Un altro approccio alle transazioni cross-chain è utilizzato da alcuni protocolli di liquidity networks o bridge AMM. Invece di bloccare e coniare token, questi sistemi hanno pool di liquidità su ciascuna chain coinvolta, composti solitamente dallo stesso asset in versione nativa su entrambe le chain.
Ad esempio, un pool di USDC su Ethereum e un pool di USDC su Solana. Quando l’utente vuole spostare 100 USDC da Ethereum a Solana, il protocollo non crea un token nuovo. Prende 100 USDC dal pool su Ethereum (trattenendoli o bruciandoli) e allo stesso tempo rilascia 100 USDC dal pool su Solana verso l’utente.
In pratica è come un exchange decentralizzato “interno” che effettua un trasferimento creditizio: toglie liquidità da una parte e la aggiunge dall’altra.
Soluzioni come Connext, Hop, Celer cBridge e altre funzionano con varianti di questo modello. I vantaggi sono che l’utente spesso ottiene direttamente l’asset nativo sull’altra chain (non una versione wrappata) e in modo molto rapido (a volte in pochi secondi), perché non deve attendere lunghe conferme o complicati processi di mint: viene servito dalla liquidità esistente.
Inoltre, si possono ottimizzare i costi e aggregare trasferimenti se molti utenti fanno operazioni simili.
Tuttavia, anche qui ci sono trade-off:
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Serve elevata liquidità nei pool per soddisfare tante richieste. Se molti utenti vogliono trasferire fondi verso la stessa chain nello stesso momento, il pool su quella chain potrebbe svuotarsi e non riuscire a soddisfare tutti.
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Spesso il protocollo dipende da nodi relayer incentivati (liquidity provider) che eseguono materialmente le transazioni sull’altra chain anticipando i fondi. Anche se non c’è un custode unico, ci si affida al fatto che questi operatori siano onesti (anche se la loro disonestà in teoria porterebbe a penali se lo smart contract è ben progettato).
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Finalità non sempre immediata: a differenza del modello lock-mint dove una volta mintato il token su destinazione siamo pronti ad operare, qui alcuni sistemi introducono finalità ottimistica. Ad esempio, la transazione viene subito erogata, ma può essere soggetta a rollback se entro X tempo viene rilevata una doppia spesa sulla chain di origine. In pratica c’è un lieve rischio temporaneo se la liquidità viene data in anticipo e poi qualcosa va storto sulla chain di partenza (come un fork o un problema di validazione).
Malgrado ciò, i bridge con pool condivisi hanno guadagnato popolarità in certi contesti, specialmente per muovere token stabilmente tra network Layer 2 e Layer 1 (il cosiddetto Hop, ad esempio, facilita spostamenti rapidi di stablecoin tra Ethereum mainnet e rollup L2).
Rappresentano un compromesso tra velocità ed efficienza contro la purezza del modello trustless. Unificano liquidità multi-catena per migliorare l’efficienza del capitale, a costo di introdurre qualche componente di fiducia o complessità operativa.
Messaggistica Generica e “Layer 0”
In tempi più recenti, l’attenzione si è spostata verso protocolli di messaggistica cross-chain generica. L’idea è fornire un’infrastruttura di base per inviare qualsiasi messaggio o chiamata da una blockchain A a una blockchain B in modo sicuro, lasciando poi agli sviluppatori la libertà di costruire sopra casi d’uso specifici (come il trasferimento token, che diventa solo uno dei possibili messaggi).
Questi sistemi vengono talvolta detti Layer 0, indicando che stanno “sotto” le blockchain Layer 1 fornendo un tessuto connettivo tra esse.
Un esempio è LayerZero, definito come un protocollo di interoperabilità “omnichain” che consente a contratti su blockchain diverse di interagire direttamente.
LayerZero permette di inviare un messaggio arbitrario da un contratto sorgente (sulla chain A) a un contratto di destinazione (sulla chain B). Per validare questi messaggi, LayerZero usa un approccio ibrido: combina un oracle decentralizzato (es. Chainlink) che fornisce le prove del blocco sorgente, con un relayer indipendente che inoltra la proof transazionale.
Solo se i dati dell’oracle e del relayer concordano, il messaggio viene accettato sulla chain di destinazione. In pratica serve la collusione di due parti diverse per barare, aumentando la sicurezza.
LayerZero è stato lanciato nel 2021 e ha rapidamente preso piede: ad oggi ha trasferito oltre $50 miliardi di valore e gestito più di 80 milioni di messaggi attraverso 50+ reti integrate. Una sua implementazione applicativa è Stargate, un bridge di asset che sfrutta la messaggistica LayerZero per eseguire swap cross-chain di token nativi in un’unica transazione.
Un altro nome di spicco è Wormhole, inizialmente nato come token bridge tra Ethereum e Solana nel 2021, poi evoluto in un più generale protocollo di messaggi cross-chain (Wormhole V2).
Wormhole è basato su una rete di 19 nodi “guardiani” (operati da validatori di alto profilo) che osservano le chain connesse. Quando un evento (messaggio) viene emesso su una chain sorgente, se almeno 13 su 19 guardiani firmano una conferma, viene generato un VAA (Verified Action Approval), essenzialmente una notifica firmata multipla che viene inviata alla chain di destinazione per eseguire l’azione.
I guardiani fungono da notary network: la sicurezza risiede nel fatto che bisognerebbe compromettere almeno 7 di loro per falsificare un messaggio (o oltre 13 per censurarlo).
Wormhole oggi supporta oltre 30 blockchain tra cui Ethereum, Solana, BSC, Terra, Polygon e altre, e ha facilitato trasferimenti per più di $40 miliardi con oltre 1 miliardo di messaggi scambiati. Si tratta quindi di una delle spine dorsali principali dell’interoperabilità attuale, con un ecosistema di oltre 200 applicazioni che lo utilizzano – inclusi bridge di token, protocolli di governance cross-chain, trasferimento di NFT per gaming.
Da citare è anche Axelar, un network di interoperabilità decentralizzato basato su tecnologia Cosmos. Axelar opera come una blockchain propria (Layer 1) che fa da hub tra diverse chain: ha un set di validatori in PoS che fungono da “bridge decentralizzato” osservando e trasmettendo messaggi tra chain eterogenee (sia chain basate su EVM che altre).
Offre sia trasferimento di asset sia funzionalità di General Message Passing (GMP) – simile a LayerZero – per chiamare funzioni su chain differenti. In altre parole, uno sviluppatore può usare Axelar per far comunicare i propri smart contract su più blockchain come se parlassero la stessa lingua.
Axelar enfatizza la sicurezza tramite il suo consenso decentralizzato e ha integrato circa 30 chain finora. Le metriche indicano una rapida crescita: le transazioni inter-chain su Axelar e gli indirizzi attivi sono aumentati di quasi il 500% nell’ultimo anno (2023), segno di un crescente utilizzo nei protocolli DeFi e app cross-chain (ad esempio il router di liquidità Squid usa Axelar GMP per offrire swap cross-chain ottimali).
In generale, l’emergere di questi protocolli di messaggistica generica indica una maturazione: non ci si accontenta più di spostare token, ma si vuole poter orchestrare logiche multi-catena complesse.
Un dirigente della Wormhole Foundation ha spiegato che questi protocolli di messaggistica forniscono “il linguaggio di base e il framework per inviare dati in modo sicuro tra due sistemi non compatibili”, costituendo la tecnologia fondativa su cui poi costruire i classici token bridge e altre applicazioni.
Allo stesso modo, il team di Axelar evidenzia che il loro GMP permette a un’applicazione su una chain di invocare funzioni su un’altra, semplificando di molto processi che prima avrebbero richiesto operazioni manuali dell’utente.
Ecosistemi Multichain
Infine vale la pena menzionare che esistono ecosistemi integrati che offrono interoperabilità nativa, seppur in modo “chiuso” nel loro ambito. Sono approcci architetturali alternativi ai bridge. I due più noti sono Cosmos e Polkadot:
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Cosmos e IBC: Cosmos è concepito come “Internet of blockchains”. Ogni applicazione può avere la propria blockchain sovrana (zone), e tutte possono comunicare attraverso il protocollo standard IBC (Inter-Blockchain Communication). IBC funziona tramite client leggero e prove di Merkle: ogni chain mantiene un light client delle altre partecipanti e verifica autonomamente le transazioni in ingresso. Questo consente trasferimenti trustless di token e dati senza bisogno di validatori esterni (la fiducia è riposta nella sicurezza reciproca delle chain stesse). IBC oggi collega oltre 115 blockchain del network Cosmos e non solo, con più di 1 miliardo di dollari al mese di volume di transazioni IBC a fine 2024. Un esempio di IBC in azione è il trasferimento di token ATOM dal Cosmos Hub verso altre chain come Osmosis: il token non viene wrappato ma esiste come denominazione nativa riconosciuta attraverso IBC. Finora IBC ha dimostrato un ottimo record di sicurezza, anche se limitato a chain che implementano lo standard (principalmente basate su Cosmos SDK). Sono in corso sviluppi per espanderlo a reti esterne (ad es. progetti per portare IBC su Ethereum o su Bitcoin via sidechain). L’interoperabilità Cosmos è decentralizzata by design, tanto che il volume di scambi IBC fa concorrenza ai maggiori bridge di terze parti.
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Polkadot e XCM: Polkadot segue un modello differente. Multiple blockchain (dette parachain) sono collegate a un’unica Relay Chain centrale che ne fornisce la sicurezza condivisa. Per comunicare, Polkadot offre il formato XCM (Cross-Consensus Message), un linguaggio standard per messaggi tra parachain e altri sistemi conness. In pratica, le parachain di Polkadot possono inviare messaggi (come trasferimenti di asset o chiamate di funzioni) l’una all’altra tramite la Relay Chain, in maniera garantita dal consenso unificato. Questo rende i trasferimenti sicuri quanto la Relay Chain stessa, eliminando molti rischi di bridge esterni. Polkadot attualmente ha decine di parachain attive (circa 40+ su Polkadot e altre su Kusama, la rete “canaria”) e XCM viene usato quotidianamente per spostare token tra chain (ad esempio mandare DOT da una parachain DeFi a un’altra di NFT). I numeri sono ancora modesti rispetto ad altri network: nel Q4 2024 la rete Polkadot vedeva in media circa 2.100 messaggi XCM al giorno (tra trasferimenti e altri tipi). Tuttavia l’attività è in forte crescita (oltre +66% rispetto al trimestre precedente). Polkadot privilegia un approccio intrinsecamente interoperabile al suo interno. Per collegarsi a blockchain esterne (come Ethereum), fa uso di bridge specializzati anch’essi decentralizzati. In altre parole, Polkadot risolve l’interoperabilità internamente con XCM, ma si trova anch’essa ad affrontare sfide simili ai bridge quando esce dal proprio ecosistema.
Riassumendo, le transazioni cross-chain possono avvenire con varie modalità: dallo swap atomico P2P, al bridge lock-mint tradizionale, ai pool di liquidità condivisi, fino ai messaggi generici su layer dedicati e agli ecosistemi multi-chain come Cosmos/Polkadot.
Ognuno di questi approcci cerca di bilanciare i tre fattori critici: sicurezza, decentralizzazione e usabilità.

Riepiloghiamo i pro/contro delle varie tipologie di bridge in modo comparativo:
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Bridge centralizzato (custodial): semplice, spesso veloce ed economico. Vantaggi: user experience facile, spesso integrato in servizi già noti (come Binance Bridge). Svantaggi: fiducia totale nell’entità, rischio di hacking o insolvenza di quest’ultima, va contro la filosofia decentralizzata.
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Bridge decentralizzato (trustless/federato): elimina intermediari, le garanzie sono crittografiche o distribuite. Vantaggi: l’utente mantiene controllo/non delega custodia a terzi, spesso supporta più asset e chain. Svantaggi: rischio di bug negli smart contract, complessità maggiore, a volte fee più alte e tempi più lunghi per finalità.
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Protocollo di messaggistica cross-chain: (LayerZero/Axelar/Wormhole) permette non solo token ma qualsiasi dato. Vantaggi: flessibilità massima (costruirci sopra qualsiasi applicazione cross-chain), spesso progettato tenendo conto di scalabilità. Svantaggi: può introdurre dipendenze esterne (oracoli, validatori specifici), curva di apprendimento per gli sviluppatori, modelli di sicurezza nuovi da verificare nel tempo.
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Ecosistema nativo multi-chain: (Cosmos/Polkadot) interoperabilità integrata fin dall’inizio. Vantaggi: sicurezza elevata senza ponti esterni, esperienza utente più coerente nel perimetro dell’ecosistema. Svantaggi: limitato a chi “entra” in quell’ecosistema, richiede adesione a un framework specifico, non risolve di per sé la connessione verso blockchain al di fuori (che comunque deve avvenire via bridge tradizionali o hub esterni).
Applicazioni:Vediamo ora come i bridge e le transazioni cross-chain vengano effettivamente utilizzati in vari ambiti del settore crypto.
Le applicazioni concrete si stanno moltiplicando man mano che l’ecosistema diventa sempre più multicatena.
Esploriamo i principali settori d’uso: DeFi, NFT, gaming e pagamenti – evidenziando esempi concreti in ciascuno.
Finanza Decentralizzata (DeFi) Multichain
La DeFi è forse l’area che più ha spinto la richiesta di soluzioni cross-chain. Nel boom DeFi 2020-21, Ethereum era la patria di protocolli di lending, DEX e yield farming.
Ma con il crescere delle fee su Ethereum, sono fiorite blockchain alternative (Binance Smart Chain, Polygon, Avalanche, Solana, ecc.) con proprie comunità DeFi. I bridge hanno svolto un ruolo cruciale nel spostare liquidità tra queste piattaforme:
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Farming cross-chain: Un utente può spostare stablecoin o altri asset su chain con fee basse per inseguire opportunità di yield. Esempio: depositare USDC su Ethereum, bridge verso Avalanche per investire in un vault di yield farm, poi magari bridge verso Arbitrum per approfittare di un nuovo prestito ad alto APY. Senza i bridge, tali strategie multi-piattaforma sarebbero impraticabili.
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Arbitraggio e trading: I trader sfruttano differenze di prezzo degli asset tra DEX su chain diverse. Ad esempio, se il prezzo di un token su Uniswap (Ethereum) diverge dal prezzo su PancakeSwap (BSC), un trader può trasferire quel token verso la chain più economica e riequilibrare il prezzo, guadagnando la differenza. Ciò mantiene i mercati più efficienti e allinea il valore degli asset tra chain. Ovviamente servono bridge veloci per cogliere le opportunità in tempo, il che ha spinto lo sviluppo di soluzioni come cBridge e Hop per trasferimenti quasi istantanei di asset tra L1 e L2.
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Piattaforme DeFi multi-catena: Molti protocolli DeFi leader hanno abbracciato la multichain. Per esempio, Aave e Curve sono stati implementati su Polygon, Avalanche e Fantom, consentendo agli utenti di depositare asset su diverse chain. I bridge in questo caso permettono all’utente di muovere il proprio deposito laddove rende di più. Si sono sviluppate dashboard che integrano funzione di bridging direttamente. In sostanza, l’utente medio magari non usa un bridge manualmente ma l’applicazione stessa integrerà l’interoperabilità per spostare fondi in background dove necessario.
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Cross-chain lending e collateral: Alcuni progetti hanno tentato modelli di prestito cross-chain. Ad esempio, Compound Chain (oggi pausa) e Kava permettono di depositare collaterale su una chain e prendere in prestito su un’altra.
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Aggregatori e servizi “bridge as a service”: Sono nati protocolli intermedi che astraggono la complessità: ad esempio LI.FI e Socket offrono API per dApp che scelgono il percorso di bridging migliore per portare l’asset dell’utente da A a B (potendo combinare DEX + bridge in mezzo). Questo significa che sempre più utenti finiscono per usare i bridge senza saperlo, perché cliccano “esegui swap cross-chain” su interfacce user-friendly e dietro le quinte l’aggregatore lavora in automatico (vende asset su chain A, bridge i fondi, ricompra asset su chain B). Ad esempio, la popolare wallet-app Rainbow permette di spostare asset da Ethereum a Polygon in un click attraverso integratori di bridge, senza che l’utente debba andare su interfacce complicate.
Un numero che dà l’idea della portata: quasi 1 miliardo di dollari al giorno in media vengono trasferiti tra blockchain tramite vari bridge nel 2025.
Gran parte di questa cifra è legata a operazioni DeFi (spostamento di stablecoin, arbitraggio, ribilanciamenti tra pool). La DeFi è cross-chain oggi.

NFT e Articoli Digitali
Nel mondo degli NFT – opere digitali da collezione, oggetti da gaming, domini blockchain, ecc. – l’interoperabilità è altrettanto importante ma assume forme leggermente diverse.
Un NFT, per definizione, è spesso legato alla blockchain su cui è stato coniato (pensiamo a CryptoPunks su Ethereum, o a collezioni su Solana).
Ma cosa succede se vuoi usare o scambiare il tuo NFT su un’altra blockchain? Ecco che entrano in gioco i bridge NFT:
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Bridge NFT tra Ethereum e chain a basso costo: Ethereum è la casa di molti NFT famosi, ma transare su Ethereum può costare molto in gas. Sono nati bridge per spostare NFT su chain con fee minori, ad esempio per poter vendere o scambiare l’NFT su marketplace alternativi. Wormhole NFT Bridge (lanciato nel 2021) è stato un pioniere: consente di prendere un NFT su Ethereum e “trasferirlo” su Solana, e viceversa. Il meccanismo è come per i token fungibili: l’NFT originale viene bloccato nel contratto Wormhole su Ethereum, e un equivalente NFT wrappato viene mintato su Solana. L’NFT wrappato mantiene i meta-dati dell’originale, così che rappresenti in tutto e per tutto quell’opera digitale. A quel punto l’utente può, ad esempio, vendere il suo NFT (originariamente Ethereum) su un marketplace Solana come Magic Eden, dove le commissioni sono irrisorie. All’acquirente viene consegnato l’NFT wrappato su Solana. Se poi l’acquirente volesse riportarlo su Ethereum (magari per venderlo su OpenSea), il bridge brucia la copia su Solana e sblocca l’originale su Ethereum.
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Interoperabilità tra NFT e metaversi: Immaginiamo un metaverso o un gioco su una blockchain specifica, ma gli utenti possiedono avatar o oggetti (NFT) su un’altra. La cross-chain aiuta a far convergere asset digitali di origini diverse. Ad esempio, The Sandbox (metaverso su Ethereum) e Decentraland potrebbero un giorno riconoscere a vicenda oggetti portati tramite bridging o standard condivisi. Oppure, un gioco su Polygon potrebbe accettare NFT collezionati su Ethereum dopo che questi sono stati bridgiati su Polygon. L’obiettivo è dare al proprietario di un NFT piena libertà di utilizzarlo dove vuole. Attualmente siamo agli inizi: progetti come Enjin hanno parlato di multiverso NFT e standard per spostare oggetti tra giochi.
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Case study gaming: Un caso specifico fu Axie Infinity. I mostriciattoli Axie sono NFT su Ethereum, ma il gioco funziona sulla sidechain Ronin per maggiore velocità. Hanno implementato un bridge Ethereum–Ronin per far entrare e uscire gli Axie NFT dal gioco. I giocatori acquistavano Axie (NFT ERC-721) su Ethereum e poi li trasferivano su Ronin per giocarci. Questo ha reso possibile un gioco NFT ad alte prestazioni, isolando le fasi costose su Ethereum (trading, wallet custody) e quelle di utilizzo sul layer ottimizzato. Come noto, quel Ronin Bridge fu hackerato nel 2022 con furto di 624 milioni di dollari in crypto, il che ha evidenziato i rischi. Ma fino a quel momento, aveva facilitato milioni di transazioni di gioco e la crescita di Axie a oltre 2 milioni di utenti.
In definitiva, per gli NFT i bridge significano poter muovere il valore culturale ed economico degli asset digitali oltre i confini originari. Chi colleziona NFT probabilmente in futuro presterà meno attenzione alla chain su cui sono, e più all’esperienza che vuole (giocarci, esporli, scambiarli).
L’interoperabilità promette di abolire la domanda “su che blockchain è questo NFT?”, perché idealmente potrà circolare ovunque ci sia interesse, con opportune garanzie.
Un effetto secondario positivo è anche mitigare il lock-in: se un certo marketplace o layer1 diventa obsoleto, i NFT non rimarranno bloccati lì per sempre ma potranno essere migrati su nuovi ecosistemi.

Gaming Cross-Chain e Metaverso
Abbiamo toccato l’ambito gaming parlando di NFT, ma c’è di più. I videogiochi blockchain e i mondi virtuali (metaversi) stanno adottando architetture multi-catena per diversi motivi: performance, costi, preferenze di community. Ci sono alcuni pattern emergenti:
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Sidechain/L2 per gameplay + mainnet per asset: come l’esempio di Axie Infinity (Ronin), molti giochi usano una chain veloce per gestire le azioni in-game (movimenti, battaglie, crafting etc.), mentre mantengono gli asset importanti su una chain principale più sicura.
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Multiverso di giochi con asset condivisi: progetti come Metaverse gaming aspirano a far sì che un oggetto (ad esempio. una spada NFT) possa essere utilizzato in più giochi. Se i giochi risiedono su chain diverse (cosa probabile se sono sviluppati da team diversi), servono meccanismi cross-chain per spostare o replicare quell’oggetto tra ambienti.
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Valute di gioco interoperabili: alcune piattaforme cercano di far circolare token di utilità su più chain per ampliare la base di utenti. Per esempio il token SAND di The Sandbox esiste su Ethereum, ma è stato reso disponibile anche su Polygon per pagare asset nel marketplace con fee basse. Questo è stato ottenuto attraverso un bridge (lock di SAND su Ethereum e creazione di SAND su Polygon).
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Federazioni di gaming chain: iniziative come Oasys blockchain (focalizzata sul gaming) o ENJ/Affinity nel mondo Polkadot stanno creando hub dedicati al gaming dove varie sotto-catene possono interoperare. Qui l’interoperabilità non è solo un extra, ma un requisito: in un torneo dove si gioca su diverse chain serve un’infrastruttura di messaggi e asset cross-chain.
In sostanza, il gaming blockchain spinge per un’esperienza senza barriere: i giocatori non dovrebbero preoccuparsi di quale chain è usata, vogliono giocare e possedere i loro asset. I bridge in questo scenario devono diventare invisibili e affidabili.
Pagamenti e Trasferimenti di Valore Cross-Chain
Un altro caso d’uso fondamentale – e in un certo senso il più aderente alla visione originale delle criptovalute – sono i pagamenti e i trasferimenti di valore senza confini.
Se pensiamo a Bitcoin come moneta globale, idealmente dovrebbe muoversi con facilità ovunque. Invece, oggi abbiamo tanti silos isolati in blockchain diverse. I bridge stanno contribuendo a creare un network finanziario connesso:
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Rimesse internazionali e pagamenti in stablecoin: Nel mondo delle criptovalute pratiche, capita spesso che una persona voglia inviare stablecoin (USDT, USDC) ad un’altra, ma magari la prima detiene le coin su una rete come Tron (molto usata in Asia per USDT per via delle fee basse) mentre il destinatario le vuole su Binance Smart Chain o Ethereum. Servizi come Binance Bridge (centralizzato) o AnySwap/Multichain (decentralizzato) sono stati utilizzatissimi per questi scopi.
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Pagamenti cross-chain in e-commerce: Si iniziano a vedere plugin che permettono, ad esempio, di pagare un acquisto online con un token su Chain A anche se il venditore vuole ricevere su Chain B. Dietro spesso c’è un atomic swap cross-chain o un bridge. Progetti come Thorchain hanno creato app tipo ThorSwap in cui puoi pagare direttamente con una coin e far arrivare al destinatario un’altra coin su altra chain, il tutto trustless. Un acquirente potrebbe pagare in BTC on-chain e un venditore ricevere stablecoin su Binance Chain, con la transazione facilitata dal protocollo in background.
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Integrazione con sistemi tradizionali: Forse il più grande riconoscimento dell’importanza dell’interoperabilità è venuto dal mondo bancario: SWIFT, la rete interbancaria globale, ha condotto esperimenti nel 2023 collegando più blockchain pubbliche e permissioned per trasferire asset tokenizzati. Utilizzando il protocollo Chainlink CCIP (Cross-Chain Interoperability Protocol) e collaborando con grandi banche (BNY Mellon, Citibank), SWIFT ha dimostrato la possibilità di usare la sua infrastruttura come “punto di accesso unico” per movimentare asset su più reti blockchain. In parole semplici, una banca poteva inviare un’istruzione a SWIFT e questa veniva eseguita come trasferimento di token su differenti blockchain. Lo scopo è facilitare il nascente mercato degli asset tokenizzati (come obbligazioni digitali e quote di fondi su blockchain) evitando frammentazione: se c’è un titolo su una rete privata e un altro su Ethereum, SWIFT vuole offrire un modo agli istituti per scambiarli senza dover integrarsi separatamente con ogni blockchain.
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Pagamento in diverse crypto unificato: Alcune startup fintech stanno usando l’interoperabilità per creare esperienze utente semplificate. Ad esempio, un punto vendita potrebbe accettare pagamenti in 5-6 criptovalute su chain diverse, ma tramite un servizio che le converte immediatamente nella valuta preferita (fiat o cripto) del commerciante, spesso usando DEX e bridge in background. L’utente paga con la coin e chain che preferisce, il commerciante riceve su un’unica chain un unico asset stabilizzato. Questo richiede concatenare più operazioni (swap + bridge + swap), ma per l’utente è invisibile.
In definitiva, nei pagamenti l’utente non vuole saperne nulla di chain: vuole solo che i soldi arrivino. L’interoperabilità punta a far sì che la rete di blockchain diventi trasparente quanto lo è oggi internet quando inviamo un’email: nessuno si chiede se una mail passa per cavi sottomarini o satelliti, funziona e basta.
Siamo sulla buona strada: le transazioni cross-chain hanno ancora costi e latenza maggiori di quelle in reti singole, ma l’evoluzione è rapida e supportata anche da chi fino a poco fa vedeva le blockchain come compartimenti stagni.

Vantaggi e Limiti dei Bridge:Avendo esplorato come funzionano e come vengono usati i bridge, possiamo ora confrontarli con le altre modalità disponibili per spostare valore tra ecosistemi diversi.
In particolare, analizziamo pro e contro dei bridge rispetto a: exchange centralizzati (CEX), metodi di wrapping centralizzati e atomic swap – che rappresentano le alternative principali.
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Bridge vs Exchange Centralizzato (CEX): Prima dei bridge, il modo più semplice per trasferire asset da una blockchain all’altra era passare da un exchange. Esempio: sposto i miei token da un wallet su Chain A all’exchange Binance, poi li ritiro su Chain B. Questo metodo ha alcuni vantaggi: è user-friendly (basta cliccare “withdraw on XYZ chain”), relativamente veloce per asset supportati e talvolta economico (molti exchange hanno fee basse per prelievi su reti alternative). Inoltre, se qualcosa va storto c’è un servizio clienti a cui rivolgersi. Tuttavia i limiti sono notevoli: si affida completamente la custodia dei fondi all’exchange durante l’operazione (esponendosi a rischio hack o congelamento account), serve un account sull’exchange (con KYC, quindi niente privacy), l’exchange potrebbe non supportare tutte le reti o token desiderati. Inoltre, delegare tutto a CEX va contro la natura trustless della blockchain e crea dipendenza da intermediari. In ottica decentralizzata, i bridge fanno a meno di permessi e KYC, permettono di muovere asset direttamente wallet-to-wallet, e spesso supportano molti più token di quanti ne listi un CEX. D’altro canto, i bridge decentralizzati espongono a rischi tecnici (bug nei contratti) che in un CEX sono sostituiti dal rischio umano/gestionale (la piattaforma può fallire o rubare fondi).
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Bridge vs Wrapping centralizzato (custodian wrapping): Un caso specifico di bridging “old style” è quello di token wrappati da custodi, come il già citato WBTC. Anche stablecoin come USDT/USDC multi-catena sono in parte gestite così: c’è un ente (Tether, Circle) che emette token su varie chain ma garantendone il peg con riserva. In pratica, se possiedo BTC e voglio usarli su Ethereum prima dell’esistenza di RenBTC o altri trustless, dovevo convertire in WBTC tramite un custodian (dando BTC e ricevendo WBTC via un commerciante autorizzato). Questo è simile ad un bridge, ma altamente centralizzato. Pro: molto semplice concettualmente, spesso considerato sicuro perché l’ente custode è regolamentato o comunque ha incentivi a mantenere il peg. Inoltre il wrapping centralizzato può essere l’unica via per asset molto difficili da portare on-chain. Contro: richiede totale fiducia nel custode (che potrebbe mentire sulle riserve o essere incapace di restituire gli asset). Inoltre, tende a creare soluzioni poco flessibili: WBTC è solo per BTC→Ethereum, non c’è un “custodial bridge” universale multi-asset multi-chain. I bridge decentralizzati (es. RenVM, un progetto che offriva renBTC in modo trustless, o tBTC) sono nati per superare questi problemi, dando la possibilità a chiunque di convertire BTC→WBTC-equivalente senza autorizzazioni. In generale, i token wrappati centralmente rimangono in uso perché consolidati (WBTC ha molta liquidità) e a volte considerati più “affidabili” sul valore (non dipendono da un contratto automatico che può avere intoppi). Però il trend va verso soluzioni trustless.
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Bridge vs Atomic Swap: Su questo abbiamo già discusso. L’atomic swap consente di scambiare asset tra chain senza intermediari, quindi è molto allineato ai principi crypto. Il grosso limite è che non trasferisce il medesimo asset, ma ne scambia due diversi. I bridge, al contrario, mantengono l’asset originale intatto dal punto di vista dell’utente, semplicemente gliene danno una rappresentazione su un’altra piattaforma. In termini di sicurezza, un atomic swap ben impostato è teoricamente molto sicuro (se non ci sono problemi con il contratto HTLC), ma la sua complessità lo rende meno comune. Si può dire che bridge e swap non sono si escludono a vicenda: i bridge servono a spostare asset omogenei, gli swap a scambiare asset eterogenei.
In breve, i bridge decentralizzati si posizionano come l’alternativa trustless all’ecosistema di trasferimenti cross-chain tradizionalmente dominato da exchange centralizzati e custodi.
Hanno democratizzato la possibilità di muovere valore tra chain, ma hanno introdotto nuove sfide (soprattutto di sicurezza). Non esiste una soluzione perfetta: la scelta dipende dalle priorità dell’utente (velocità, costo, sicurezza, anonimato).
Lo scenario ibrido è piuttosto comune: ad esempio, un investitore può usare un CEX per grosse somme per comodità, ma un bridge per piccole somme o asset non disponibili. Oppure un’azienda può scegliere un custodian regolato per certe operazioni e un bridge trustless per altre.
Nel complesso, comunque, la tendenza è chiara: col tempo sempre più utenti e istituzioni preferiranno metodi interoperabili non custodial, man mano che questi diventeranno affidabili e semplici da usare quanto i vecchi metodi centralizzati.

Conclusioni:
L’interoperabilità tra blockchain – resa possibile da bridge, protocolli di messaggistica e standard condivisi – rappresenta uno snodo cruciale nell’evoluzione dell’ecosistema crypto.
Come abbiamo visto, essa nasce come risposta alla frammentazione ed è già oggi il motore di molte innovazioni (dalla DeFi multichain alle applicazioni cross-platform).
L’interoperabilità sta trasformando la blockchain da un insieme di giardini isolati a un ecosistema interconnesso. È un processo in corso, con enormi progressi fatti ma anche ostacoli ancora da superare.
I bridge e i protocolli cross-chain hanno dimostrato il loro valore abilitando casi d’uso prima impensabili, ma hanno anche evidenziato nuove superfici di rischio.
La prossima fase consisterà nel rafforzare queste fondamenta: rendere i bridge così sicuri, affidabili e integrati che quasi dimenticheremo della loro esistenza. Proprio come pochi pensano ai protocolli TCP/IP mentre leggono una pagina web.













